Stefano Amato, L'apprendista libraio (luglio 2008)


Voi lo sapevate che esistono i "libri da salotto?"
Io no. O almeno, non sapevo si chiamassero così. L'ho imparato il primo giorno di lavoro, mentre la proprietaria della libreria mi spiegava la disposizione della "merce" sugli scaffali. Ricordo che a un certo punto, facendo un cenno alla sua sinistra, ha detto: «qui invece teniamo i libri da salotto».
Ripeto, era il mio primo giorno, non potevo mica fare la figura dell'ignorante in materia. Quindi ho tralasciato di rispondere qualcosa del tipo: «scusa, qui teniamo i che?», e mi sono limitato ad annuire e a seguirla oltre, probabilmente nella zona dei temibilissimi "saggi psicologici".
(È una cosa che faccio spesso, quando qualcuno mi parla di argomenti di cui non so o non m'importa nulla. Annuire in silenzio, voglio dire. Mi capita soprattutto con lo sport. Fate una prova. Parlatemi del rigore rubato alla Juventus o della pole position guadagnata da Niki Lauda, e mi vedrete farlo a tutto spiano mentre vi fisso come una mucca guarda il treno che passa.) (Come dite? Niki Lauda non gareggia più da secoli? Visto?)
Comunque, per chi, come me allora, non sapesse che cos'è un libro da salotto, sappiate che si tratta di quei volumi più grandi della media che pesano come mattoni forati e costano quanto il mio stipendio mensile. Di solito contengono solo fotografie dell'argomento trattato, il quale, nove volte su dieci, è qualcosa di cui potete fare tranquillamente a meno.
Credo si chiamino in quel modo per un motivo preciso. E cioè perché, con tutti i soldi che costano, uno non si sognerebbe mai di lasciarli su uno scaffale. Ma è spinto invece a metterli in mostra, normalmente su uno di quei tavolini da caffè che la gente tiene appunto in salotto davanti al divano. Per intrattenere gli ospiti, o roba simile. Chissà, forse Lina Sotis accenna qualcosa in proposito nel suo libro, devo controllare.
Piccola digressione: siete liberi di non crederci, ma il Bon ton è una lettura tutt'altro che disprezzabile. Ogni tanto in libreria gli do una sbirciata. Oltre a essere un vero spasso, è anche una fonte inesauribile di dritte. Per esempio, lo sapevate che quando vi presentano qualcuno, dire "piacere" è un peccato paragonabile all'omicidio? E che se dopo uno starnuto osate dire "salute", meritereste la gogna? Be', ora lo sapete. E ringraziate Lina, per questo, non me.
Forse si sarà capito, forse no, quindi sarà meglio metterlo in chiaro una volta per tutte: io credo che i libri da salotto rappresentino il Male. Il tipo di "male" per cui, se un giorno la libreria dovesse inspiegabilmente animarsi, sono sicuro che tutti i libri si coalizzerebbero (probabilmente capeggiati dai tascabili economici) contro quelli da salotto, sottoponendoli a pratiche innominabili.
Secondo me, poi, non andrebbero nemmeno venduti in libreria. Voglio dire, tecnicamente parlando sono pur sempre dei libri: consistono di un certo numero di pagine (di carta patinatissima, con quel che segue in termini ecologici), rilegate e racchiuse in una copertina rigida. Ma alla fin fine sono solo degli imbucati.
Tanto per cominciare, all'interno hanno pochissimo testo, e già questo la dice lunga sul loro conto. Inoltre hanno un "peso specifico" che supera di gran lunga quello reale; al contrario di quegli altri, che magari pesano un etto, ma la cui consistenza è incalcolabile. Per questo io adoro i libri (veri) al limite del feticismo. Sono degli oggetti stupefacenti. Voi li prendete in mano, e su quella mano reggete un mondo intero. Forse il mondo intero, se il libro è quello giusto. Si può dire lo stesso di un libro da salotto? Non credo. Certo, spesso presentano delle immagini stupende scattate da fotografi dal talento eccezionale. Ma oltre a questo: il nulla. Sono solo costosi, ingombranti e antiecologici catafalchi per gente che ama darsi delle arie. In pratica sono i SUV dell'editoria. Anche se io sono sempre più propenso a considerarli l'equivalente per adulti dei libri cartonati per bambini in età prescolare.
Ora che ci penso, forse dovrebbero venderli nei negozi d'arredamento. L'acquisto di un libro da salotto infatti si avvicina molto a quello di una sedia o di un cuscino. Per esempio, il cliente interessato, osservandone le coste, quasi non legge i titoli dei libri. Non sembra importargliene un fico secco di che cosa trattano, se delle ceramiche di Caltagirone, dell'evoluzione del Barocco in Sicilia, o delle pitture rupestri risalenti al Magdaleniano. No, secondo me in queste prime fasi il cliente ragiona solo in termini cromatici. Nel senso che sta decidendo quale di quei volumi si intona meglio con il rivestimento del suo divano o con la tinta delle pareti, o perfino se non faccia a cazzotti con quell'altro tomo già in bella vista sul tavolino da caffè. Sono pronto a scommettere che prima o poi qualcuno verrà in libreria direttamente con un campione di moquette, per essere sicuro di fare un acquisto decente.
Superato il test cromatico, finalmente avviene il contatto fisico. A quanto pare, però, i clienti dei libri da salotto accusano seri problemi alla muscolatura degli arti, perché raramente sfilano i volumi da sé, anche se ce li hanno a portata di mano. No, si limitano a indicarli all'apprendista libraio. Il quale dovrà lasciare la sua postazione privilegiata al bancone, prendere il mattone e porgerglielo. Il cliente lo aprirà con un'espressione del viso vagamente disgustata, vai a capire perché, e a quel punto deciderà se comprarlo o meno.
Se mi sto soffermando così a lungo sull'argomento non è solo per dare al pezzo una lunghezza dignitosa, ma anche perché i libri da salotto sono i responsabili di una di quelle situazioni paradossali che mai, accettando di fare questo lavoro, mi sarei aspettato di affrontare. Parlo di quando la libreria si trasforma in qualcosa di molto simile a un mercato della frutta. Può succedere infatti che un cliente entri e, indicando i libri da salotto, osi dire: «Mi dia uno qualunque di questi, per favore. Basta che sia sui cinquanta euro».
Di solito a queste parole segue un leggero gorgoglio. Sono i miei succhi gastrici che si rivoltano nello stomaco, quasi che volessero farsi strada attraverso le diverse membrane per colpire in faccia il cliente e sfigurarlo in modo definitivo.
Se è un giorno in cui mi sento tollerante, non batto ciglio, ingoio la bile e faccio il mio dovere. Tiro fuori tre o quattro libri e, canticchiando Helter Skelter, aspetto che il cliente scelga, ovviamente basandosi sulla copertina.
Ma ormai dovreste conoscermi: quando si parla di libri, io e la tolleranza siamo come l'acqua e l'olio. E se mi capita fra le mani una persona che basa il suo interesse per un libro solo sul valore economico, allora non ci vedo più e do libero sfogo alla mia insofferenza. Purtroppo, mai quanto vorrei: sono pur sempre un apprendista. E allora devo limitarmi al sarcasmo. Ecco qui alcuni esempi concreti.

CLIENTE: «Mi dia uno qualunque di questi, per favore. Basta che sia sui cinquanta euro».
APPRENDISTA LIBRAIO: «Questo costa sessanta. Che faccio, lascio?»

Oppure:

CLIENTE: «Mi dia uno qualunque di questi, per favore. Basta che sia sui cinquanta euro».
APPRENDISTA LIBRAIO: «Fa lo stesso se gliene do due da venticinque?»

Ma anche, in un futuro improbabile:

CLIENTE: «Mi dia uno qualunque di questi, per favore. Basta che sia sui cinquanta euro».
APPRENDISTA LIBRAIO: «Vaffanculo».

Eppure, strano a credersi, una volta un libro da salotto mi ha quasi salvato la vita.
È successo anni fa a Napoli, dove ero andato a conoscere i genitori della mia prima e finora ultima fidanzata (a quanto pare ho imparato la lezione al primo colpo). Ricordo che abitavano in un parco con piscina e pineta in zona Posillipo. Io, figlio di due infermieri della mutua con i quali vivevo in un condominio della periferia nord di Siracusa, non è che mi sentissi proprio a mio agio, seduto nel loro salotto. E visto che mi trovavo nel periodo di punta della mia fase punk-rock, credo che la cosa fosse reciproca. Non indossavo il mio giubbetto con i gomiti sfondati solo perché una cameriera filippina se lo era fatto consegnare all'ingresso. In quel periodo dovevo essere molto ottimista riguardo ai rapporti interclassisti.
Comunque, eravamo tutti e quattro seduti su quel divano, quando la mia ragazza dovette assentarsi, lasciandomi per mezz'ora da solo con i suoi genitori. La temperatura scese di un paio di gradi (forse proprio perché, pochi minuti prima, stringendogli le mani avevo osato dire "piacere"). Loro mi guardavano, io guardavo i miei piedi, nessuno parlava. Stallo puro. È qui che entra in scena il libro da salotto. Ce n'era uno sul tavolino da caffè, e io mi sporsi ad aprirlo e sfogliarlo. Era un libro sul Vesuvio. Per puro caso avevo appena dato l'esame di geologia, e questa fu una fortuna, perché finalmente potevo dire qualcosa che usciva dalla mia bocca in modo spontaneo, e non secondo le direttive della mia ragazza («Per favore, evita a qualunque costo di parlare di musica»). Insomma, imbastimmo una specie di conversazione sul Vesuvio, sulla prevedibilità delle eruzioni eccetera. Poi sarebbe andato ugualmente tutto a scatafascio (il giorno dopo ci aspettava la messa di Pasqua, io dissi che non me lo sognavo nemmeno di partecipare e via discorrendo), ma in quella mezz'ora gli eventi sembrarono davvero prendere una piega inaspettata. E tutto grazie a quel volume da salotto.
Ora, lo so che «mi ha quasi salvato la vita» può sembrare esagerato. Però allora l'ho pensato sul serio. E un po' lo penso anche oggi. Chissà cosa sarebbe successo, se su quel tavolino non ci fosse stato nulla.
Quindi ora la sparo grossa e dico: esiste al mondo una cosa più bella di un libro?
«Certo, il sesso!», mi sembra quasi di sentirvi dire in coro, e forse avete ragione. Però pensateci un attimo: se doveste scegliere, che cosa portereste con voi su un'isola deserta, un libro o un uomo/una donna?
Okay. Come non detto.

Mi rendo conto che se leggete questa rubrica è perché mi volete sentir parlare di libri e del modo in cui si vendono, non della mia autobiografia o del posto occupato dal sesso nella mia scala di valori. Ma è un problema farsi venire idee brillanti mentre tutti i tuoi amici sono in spiaggia a cercare di perpetuare la specie. Ne riparliamo il mese prossimo, va’. ♦


© 2008 Stefano Amato