Stefano Amato, L'apprendista libraio (ottobre 2008)


Questa potrebbe essere l'ultima puntata dell'Apprendista libraio che scrivo da vivo. L'altro giorno un tedesco alto due metri ha minacciato di uccidermi se non gli avessi procurato un dizionario Tedesco-Tailandese entro una settimana. L'ultimatum scade domani, e io non sono ancora riuscito a trovare quel benedetto dizionario.
La cosa buffa è che mentre il perticone teutonico mi abbaiava contro - temo alludendo anche alle mie origini ebraiche, in qualunque modo le abbia colte - io pensavo a tutt'altro. Non so perché, ma ogni tanto mi capita di avere delle vere e proprie illuminazioni in momenti topici come liti, incontri di natura sessuale eccetera.
Quel giorno, per esempio, ho pensato che qualunque scrittore superi la soglia delle cinquantamila copie vendute dovrebbe lavorare in una libreria per almeno un mese. Così, tanto per rendersi conto di che tipo di clientela compra i suoi libri.
Prendete Paolo Giordano. È bravissimo - e La solitudine dei numeri primi un gran bel romanzo - ma non credo sarebbe felice di scoprire quante persone in libreria chiedono, quando va bene, se abbiamo «il libro sui numeri dispari».
Uno scrittore non preferirebbe - ho pensato, sempre in trance, durante il cazziatone del tedesco - avere dieci lettori di numero, ma che almeno conoscano il titolo del suo libro? E, di conseguenza: pubblicare un best seller non è forse la cosa peggiore che possa capitare a uno scrittore italiano? (Fatte le dovute eccezioni. Gomorra, fortunatamente, è una di queste.)
Probabilmente la risposta a entrambe le domande è "no". È solo che dopo quindici anni di cultura punk-rock, penso ancora che piacere a tutti sia un peccato imperdonabile.
Quindi basta, la pianto qui. Dopotutto questi sono pensieri in libertà di uno che domani a quest'ora potrebbe non essere dei vostri. In più non vorrei che il box dei commenti qui sotto si riempisse di insulti. E non è bello insultare un defunto.

Ora che ci penso, io qualche scrittore che ha lavorato o lavora in libreria lo conosco. Giuseppe Culicchia, per esempio, so che ha fatto il libraio a Torino. Ivano Bariani idem, ma a Roma. E mi dicono che anche Giorgio Fontana, Valeria Parrella e Gordiano Meacci hanno i loro bei trascorsi passati o presenti in una libreria. Stando alla biografia sul suo sito, ha lavorato come libraio in diverse città italiane anche Mattia Walker. Di cui è appena uscito, purtroppo, quello che si preannuncia un caso editoriale, e cioè il romanzo Civitavecchia alla fine del mondo. Dico "purtroppo" perché già immagino i modi più svariati con cui i clienti lo chiederanno al sottoscritto («il libro su Civitanova e l'apocalisse ce l'avete?»), avvicinandomi di un altro passo all'arruolamento nella Legione Straniera.

Giorni fa sono stato anche dal dentista, dove ho scoperto due cose: la prima, che - parafrasando Woody Allen - le parole più belle del mondo non sono «ti amo», ma «complimenti, non ci sono carie»; la seconda, che le riviste nelle sale d'aspetto dei medici sono sempre ridotte a brandelli perché qualcuno, tra cui un apprendista libraio di nostra conoscenza, non esita a strappare e portarsi via un articolo che gli interessa.
In particolare, in un vecchio Venerdì di Repubblica ho trovato un pezzo che faceva il punto della situazione sul commercio elettronico nel nostro paese. Mi interessava perché sempre più spesso, davanti a clienti con richieste impossibili, mi sorprendo a pensare: «Ma perché invece di ammorbare il sottoscritto incrinandogli irreversibilmente il karma, il libro non te lo compri su internet?»
Lo so, lo so. State pensando: «Ehi, ringrazia che c'è ancora qualcuno che si prende la briga di venire in libreria. Se tutti comprassero i libri su internet, le librerie come la tua chiuderebbero, e tu ti ritroveresti sul primo marciapiede a strimpellare vecchie canzoni di Bob Dylan sperando in qualche moneta».
Niente a cui non abbia pensato anch'io, tranne che nel mio caso mi ritroverei a strimpellare Elliott Smith e non Dylan. Ma non stiamo a sottilizzare.
Ad ogni modo è qui che entra in gioco l'articolo che ho "preso in prestito" dal dentista. Stando al Venerdì, per ora non corro rischi. Nonostante l'incremento degli ultimi anni, il fatturato del commercio elettronico italiano è ancora un terzo di quello francese, un sesto di quello tedesco, e un decimo di quello britannico. Una combinazione letale di analfabetismo informatico e paura delle frodi online, infatti, fa sì che i libri acquistati su Internet Bookshop siano solo il 2% di quelli acquistati in totale in Italia (quelli comprati su Amazon, negli Stati Uniti, dieci volte tanto).
Posso stare tranquillo e tenere la chitarra nella sua custodia, quindi? Neanche per sogno. Secondo quell'articolo cinque dei dieci siti in cui si acquista di più in Italia sono librerie online, nell'ordine Internet Bookshop, Unilibro.it, Amazon, Libreriauniversitaria.it, e BOL-Books on line. E, quel che è peggio, tra il 2007 e il 2011 si prevede un tasso di crescita annuo del 30% (in tutti gli stati citati sopra siamo tra il 15% e il 25%).
Nonostante questo, però, anch'io compro libri su internet. Sembra una stupidaggine autolesionista ma è così. Può capitare che io voglia un libro che in quel momento non è in magazzino, e prima del prossimo ordine passa del tempo. Oppure i nostri distributori non trattano una determinata casa editrice. Ci sono un sacco di buoni motivi. Anche se forse quello decisivo è che, per un bibliomane come il sottoscritto, il fascino di vedersi arrivare a casa un pacco pieno di libri è irresistibile.
Infine, tanto per snocciolare un'altra di quelle nozioni che ci piacciono tanto, l'articolo diceva anche qual è stato il primo libro comprato online in Italia. Si tratta della Concessione del telefono, di Andrea Camilleri, ordinato il 3 giugno 1998 da un signore di Fremont, in California.

Da quando ho introdotto, il mese scorso, una sottorubrica apposita, mi sono accorto che le domande idiote sono praticamente infinite. Sul serio. All'inizio pensavo di restare a corto, e invece mi ritrovo a doverne scegliere una fra le tante.
(Qui dovreste immaginarvi una specie di jingle che funga da sigla...)
La domanda idiota del mese in realtà è composta da due domande. Un cliente si avvicina al bancone e dice: «Salve, che cosa avete di John Fante?» (John Fante è solo un esempio.) E questa è la prima. Non è proprio classificabile come "domanda idiota", ma quasi. Può diventarlo se al posto di John Fante ci mettiamo - che ne so - Wilbur Smith, di cui solitamente abbiamo così tanti libri che per rispondere mi ritroverei a snocciolare titoli per dieci minuti, due volte («Scusa, quali erano i primi che hai detto?» è un classico). Comunque, mettiamo che sono fortunato e il cliente chiede che cosa abbiamo di John Fante. Io scrivo "Fante John" nel campo dell'autore, premo invio, e sul monitor appare la schermata con tutti i titoli di John Fante che abbiamo in libreria al momento della consultazione.
Lasciate che lo ripeta: compaiono tutti i titoli di John Fante che abbiamo in libreria al momento della consultazione. Né uno di più, né uno di meno. A quel punto io, leggendo, dico: «Dunque, dentro abbiamo Chiedi alla polvere, La confraternita dell'uva e La strada per Los Angeles». È qui che arriva, puntuale come il primo acquazzone autunnale, la vera domanda idiota.
«I sogni di Bunker Hill non ce l'avete?»
Se c'è una cosa che ho imparato, è che il karma è troppo importante per lasciarlo incrinare da domande del genere. E che è inutile chiedere al cliente perché, se gli interessava quel libro, non lo avesse detto subito. È inutile anche fargli notare che se lo avessimo avuto, allora lo avrei elencato insieme agli altri. La cosa migliore da fare, in questi casi, è gettare un'occhiata di cortesia al monitor e dire: «No, mi dispiace. I sogni di Bunker Hill, non c'è. Vuole ordinarlo?»
«No, vabbè, ce l'ho già».
Se riesci ad ascoltare una risposta del genere senza muovere un sopracciglio, il nirvana è dietro l'angolo. E tu hai il diritto di sospettare di essere il prossimo Dalai Lama.

Il mese scorso è morto David Foster Wallace, uno dei miei scrittori preferiti. Il giorno dopo, come si usa nella libreria dove lavoro, avrei dovuto esporre i suoi libri in vetrina. Ma non l'ho fatto. Ho inventato una scusa, e poi un'altra, fino a quando i giornali non ne hanno parlato più e l'argomento è caduto. Non chiedetemi perché l'ho fatto, non lo so nemmeno io. So solo che mi è sembrato giusto. Come se glielo dovessi. Forse perché anche lui non voleva piacere a tutti.

© 2008 Stefano Amato