Stefano Amato, L'apprendista libraio (maggio 2008)


Quando la proprietaria della libreria in cui trascorrevo la maggior parte dei miei pomeriggi mi ha offerto di lavorare per lei, non sapevo quale divinità ringraziare. Non solo, infatti, mi sarei finalmente lasciato alle spalle l’odioso status di laureato & disoccupato. Ma avrei anche fatto il miglior lavoro che un lettore da sessanta titoli all’anno – nonché aspirante scrittore con romanzo in uscita – potesse mai chiedere di fare. O almeno, così credevo.
Be’, è passato più di un anno da quel giorno, e ora posso dirlo con cognizione di causa: non è proprio così. E dispiace dirlo, ma uno dei motivi perché al solo pensiero di rimettere piede lì dentro mi vengono i sudori freddi, è rappresentato dai clienti.
Credo di averci messo sì e no due giorni a capire che quelli “buoni” sarebbero stati in netta minoranza. Mi riferisco ai clienti con cui vale la pena di scambiare quattro chiacchiere sui libri; quelli con cui puoi intavolare un dibattito del tipo: “Nobel a Philip Roth: ora o mai più?”; gente che compra e legge i piccoli editori, e che evita i best seller come la peste; che ha letto Guerra e pace due volte e spera di leggerlo di nuovo quanto prima; che non sa chi sia Maria De Filippi. Ma soprattutto, gente che il più delle volte sa esattamente quello che vuole.
Già, perché una delle prime cose che ho notato facendo questo mestiere, è stato il numero di clienti che entrano in libreria senza avere la più pallida idea di quello che cercano. E non parlo di quelli che vogliono solo “dare un’occhiata”. Loro vanno benissimo. Trovo che bighellonare dentro una libreria sia uno dei più bei passatempi del mondo, sicuramente migliore dello starsene stravaccati a guardare l’ennesima replica di Walker Texas Ranger. Io stesso se non lo avessi fatto non sarei mai stato assunto.
No, io parlo dei clienti che si avvicinano alla cassa e pronunciano le seguenti parole (sono sempre le stesse, è impossibile sbagliare): «Sto cercando un libro di cui non conosco né il titolo né il nome dell’autore».
La prima volta che ho sentito questa frase sono scoppiato a ridere. Pensavo fosse una cosa che capitava una volta ogni milione di clienti. Di nuovo, mi sbagliavo. Non sapevo che il dialogo che ne sarebbe seguito – e che riporto subito sotto per dovere di cronaca – si sarebbe ripresentato con poche varianti al ritmo di due, tre al giorno.
Io: «Conosce la trama?»
Cliente: «Sì, dovrebbe parlare di un ragazzo. O di una ragazza. Un ragazzo o una ragazza che ha problemi con i genitori o qualcosa del genere».
Io: «Mmh. Ma è un romanzo italiano?”
Cliente: «No, ma quale italiano. Mi sembra che l’ha scritto un russo. O forse era cileno, non ricordo bene. Ha capito che libro dico, no?»
Io: «Russo o cileno, eh? La casa editrice se la ricorda?»
Cliente: «Ah, sì. Rizzoli».
Io (davanti allo scaffale dei libri Rizzoli): «Vediamo un po’...»
Cliente: «O Feltrinelli».
Io: «Gesù».
Cliente: «Come, scusi?»
Io: «No, niente. Sa almeno se è una novità?»
Cliente: «Oh, sì. Dovrebbe essere appena uscito. Ho letto la recensione l’altro giorno sul giornale. “La Repubblica” o “Il Corriere”, uno dei due. A questo punto dovrebbe essere facile. Non mi dica che per lavoro non dovete leggere le recensioni sui giornali».
Io: «Senta, senza autore o titolo è praticamente...»
Cliente: «Aspetti, ora che ci penso nel titolo dovrebbe esserci la parola “pioggia”. O “neve”. No, “nuvola”! Ecco sì, “nuvola”».
Io: «O pioggia o neve o nuvola».
Cliente: «Esatto. Da qualche parte a metà del titolo».
Io: «Capisco, ma anche così non è facile...»
Cliente: «Eccolo qui! Trovato».
Io: «La verità sul ghiaccio di Dan Brown?»
Cliente: «Visto? Non era poi così difficile».
Ma raramente la questione si risolve così velocemente. E se non si arriva a una soluzione empirica entro un tempo ragionevole, di solito la cosa si evolve così: il cliente si illumina – gli si vede quasi una lampadina sbocciargli sulla testa – e dice: «Non può controllare al computer?»
Già, il computer. Non so perché, ma è come se le persone di una certa età, quelle che non hanno mai posseduto un pc, quelle che non sanno che cosa sia un database, attribuissero a un computer capacità soprannaturali. Tipo che può leggere la mente degli essere umani, o cose del genere. Oppure forse credono che il programma di gestione del magazzino di una libreria cataloghi i libri non secondo i normali campi (titolo, autore, casa editrice eccetera), ma per “quotidiano nel quale è stato recensito” e via dicendo. Il programma antidiluviano che usiamo noi, poi, non ha nemmeno un sistema di ricerca per parole chiave. Bisogna per forza immettere il titolo esatto privo di articolo iniziale. Senza conoscere questo dato o il nome dell’autore, è pressoché impossibile risalire al libro.
Certe volte, se sono di buon umore e penso che la missione non sia proprio impossibile, riesco nell’impresa. E solo perché nell’interrogatorio che segue spuntano locuzioni quali “caso editoriale”, “primo in classifica in” (segue il nome di una nazione a caso fra Spagna, USA, Giappone, Inghilterra, Francia o Germania), “l’autore è il protagonista di” (segue il titolo di una serie TV o di un reality show). Ma di solito getto la spugna molto presto. Se per esempio il cliente entra con un sorriso obliquo stampato in faccia e, con le mani alzate in segno di resa, dice qualcosa come: «Per favore non mi chieda il titolo e l’autore perché non me li ricordo, so solo che nel titolo c’è la congiunzione “e”», non ci provo nemmeno. Mi limito a fissarlo con lo sguardo lievemente minaccioso. Fino a quando lui, indietreggiando, non dice: «be’, forse è meglio se ritorno con il titolo esatto».
Ma questo è il minimo. In quella libreria succedono un sacco di altre cose. E io ve le racconterò in questa rubrica. ♦

© 2008 Stefano Amato